IL PANTHEON LAICO DI TULLIO TULLIACH

Articolo tratto dal corriere dell'arte dell'11 Gennaio 2013

Conosco Tullio Tulliach da un bel po' di anni e confesso che incontro una certa difficoltà nel trovare le parole adatte per definire la personalissima poetica che caratterizza questo originalissimo pittore. In qualche caso si possono trovare riferimenti nella metafisica, nel surrealismo, o ancora nella pittura fantastica: ma si tratta di contaminazioni di comodo, che servono più alla critica che all’artista.

Infatti Tulliach non ha bisogno di essere ingabbiato tra i parametri di linguaggi storicizzati e definiti, perché è dotato di una propria autonomia che risente di scuole, tempi e poetiche viste o intraviste, ma sempre filtrate attraverso il proprio sentire.

C'è qualcosa di inquieto nel vagabondare pittorico di Tullio, una ricerca inestinta di perfezione o forse di sacra1izzazione del senso del vero, che non può affrancarsi della mistura di illusioni e riflessi che provengono dalla sua forte capacità percettiva. Una capacità percettiva che gli consente di bypassare le derive del senso, per mettere a nudo il significato. D'istinto amo quei legni che cercano di slacciarsi dai ceppi limitanti della loro materialità, per farsi cose e genti, bestie e dei. E poi quell'universo di cose morte, che morte non sono, ma coinvolte in un percorso metamorfico he imporrà loro di essere altro, nuova materia, forse ancora protagoniste in quello che gli aborigeni australiani definiscono "tempo del sogno".

Quel pantheon laico di Tullio Tulliach non è quindi un mondo estinto, è soprattutto un universo che viaggia parallelo al nostro e nel quale spesso ci perdiamo, quasi risucchiati dal buco nero in cui troviamo ossa, resti, materiali abbandonati nelle sabbie e negli interstizi, e ancora legni mutati dal tempo e delle acque travolti dalla violenza di stigmate capaci di ferire l'immaginazione. Consapevoli che questa durezza è in fondo l'humus più potente del pittore, siamo così indotti ad acuire la nostra sensibilità percettiva, tesi nello sforzo di ascoltare l'urlo senza fine che vibra nella risacca dell 'angoscia da cui provengono quelle forme in continua evoluzione.

Quello di Tulliach è quindi un mondo senza vita? È che forse il suo non è il mondo così come lo pensiamo: quello che ci suggerisce proviene da un processo dinamico in cui l'artista è giunto lasciando coagulare sogni e archetipi, forse riverberi di paure ancestrali, o qualcosa di più profondo, che non sappiamo indagare. Dobbiamo limitarci a osservare quegli spazi parallelì, così lontani e così vicini; forse irraggiungibili, o forse già parte integrante del nostro quotidiano incedere , ma di cui siamo inconsapevoli. Forse i legni di Tulliach siamo noi...

Massimo Centini .