Le origini istriane di Tullio Tulliach, che profugo da Pola a soli 16 anni capitò a Torino sono in certo senso visibili nella sua pittura che non trova riscontro nella fraseologia torinese e nel lessico piemontese. Tulliach ha frequentato Menzio, ha dipinto in casa del Maestro, per anni ha disegnato alla scuola del nudo dell'Accademia Albertina, ha v1s1tato le gallene torinesi e frequentato i nostri artisti. Tuttavia, nonostante queste premesse d1 carattere culturale, egli usa un linguaggio proprio scevro non solo da inflessioni dialettali ma nel quale confluiscono in varia misura e perfettamente recepite, istanze di carattere europeo.

Possiamo dire che l'essere istriano ed appartenere quindi a quella part1colanssima atmosfera mitteleuropea,a quel connubio unico tra cultura di stampo tedesco e cultura latina, ha certamente influito sulla filosofia di Tulliach che trova, proprio a Torino, una eco singolare in campo pittorico. Alludo al primo Casorati quando il maestro, subìto il fascino ella secessione viennese, costruiva opere che avrebbero potuto essere firmate con uno dei nomi, dei protagonisti del movimento.

A ciò si aggiunga una nostalgia, sempre presente ed acuta, per la patria abbandonata nell'adolescenza, proprio quando si cominciano a percepire le verità assolute ed i più affascinanti misteri del mondo. A sedici anni il proprio paese è favola, magia, incanto. Non si dimentica più. Non si può e non si deve. Ecco perché Tulliach parla istriano quando dipinge. Con caparbietà, coerenza, persino testardaggine. Tutti tratti peculiari alla sua gente. I paesaggi di Tulliach, percorsi da strani messaggi luminosi policromi che in alcune tele hanno il potere di inquietare lo spettatore "quasi il dipinto avesse occhi penetranti ed implacabili ed il normale rapporto tra VEDENTE e VISTO, cioè tra soggetto ed oggetto, fosse ribaltato" e che suggeriscono sia la presenza di entità misteriose, sia un itinerario, anch'esso impenetrabile ma certamente carico di risvolti spiritualistici, i paesaggi, dicevo, se pure scaturiscono da una visione reale e recano scritta sul retro l'indicazione, geografica, sembrano inventati.

A causa del colore che li immerge in una atmosfera vespertina, in una dimensione onirica, melanconica, struggente e nostalgica. Come se, avvolgendole in una luce riflessa, Tulliach intendesse cangiare le colline torinesi, le montagne della val di Susa o le Langhe in paesaggi sognati e forse istriani. La luce radente della sera ha questo potere: di accomunare, rendere omogeneo, annullare le disparità e rendere ogni cosa sognante.

Il ricorso ad una tavolozza che gioca sui toni dei bleu e dei verdi, che certi ocra raffredda e che i rossi usa puri e con parsimonia soltanto là ove interviene la misteriosa grafia del messaggio luminoso, è forse voluto o forse istintivo. Certamente è chiaro indizio di natura psicologica, così come lo è la necessità e questa è alla radice, nella scelta dei temi -di una costruzione ove l'equilibrio è ricercato e risolto in una sorta di reticolo ideale, rn un scomposizione della tela in sezioni (i campi squadrati, le masse degli alberi, il gruppo di case, i segni concentrici sull'acqua stagnante delle risaie) ciascuna delle quali puo vivere di vita propria, avulsa dal contesto generale - certe parti dei quadri si possono isolare sono in sé complete - ma al tempo stesso è necessaria ed indefettibile alla comprensione del tutto.

La pittura di Tullia h è logica, rigorosa, impegnata, intrisa di una forma di pudore e di dignità che non si lascia fuorviare dal sentimento se non nella misura necessaria ad arricchire il testo di una particolare atmosfera. Una pittura serotina, con dolcezze un po' aspre, con una gran quiete dentro ed una sua verità raggiunta a fatica, meditata, sofferta, ma orma, granitica e certa.

Vi si legge la ricerca di un continuo perfezionamento di un superamento del traguardo già raggiunto da perseguire però senza scosse o rivoluzioni. È inoltre chiara l'intenzione de11'artista di riuscire a piegare la tecnica, asservendola al discorso vuoi sociale, vuoi poetico, vuoi filosofico che egli pronuncia e che è sempre attualissimo.

Oggi, ad esempio, Tulliach dipinge la realtà così come la nostra condizione di ex-bipedi la percepisce: da una automobile in corsa. Il problema era già stato affrontato dai futuristi ma in modo completamente diverso, per non dire opposto. Tulliach fa un discorso nuovo. I futuristi vedevano, stando fermi, gli uomini e gli animali in movimento ed il loro problema era quello di imprimere all'oggetto dipinto il senso della dinamicità. Per Tulliach, che si fa interprete di una nuova dimensione umana, è lo spettatore a muovere, mentre il paesaggio è stabile. Soltanto per un effetto di ottica colui che vede transitando ha l'impressione che a muoversi siano le cose; alcuni degli elementi del proprio raggio visivo, in particolare i primi piani.

Come risolve il problema Tulliach? A differenza dei futuristi che impostavano l'intera tela sulla sventagliata della cosa dipinta, Tulliach accentra l'attenzione su pochi elementi (le figure, gli alberi) raggiungendo così una una maggior verità obiettiva, sia un effetto emblematico di maggior efficacia. Se in una tela noi vediamo alcuni alberi come sventagliati, tripli o quadrupli, se il cielo ci appare a segmenti rapidi, subito ci domandiamo perché È una domanda che forse non ci porremmo se tutta la tela fosse costruita seguendo l'idea della dinamica. Una volta attratta la nostra attenzione, Tulliach ci induce alla riflessione e siamo costretti, dall'evidenza stessa del quadro, a convenire che effettivamente, percorrendo una qualsiasi strada in automobile, noi percepiamo il paesaggio, e cioè la realtà, parte come fosse fissa e stabile e parte in rapida successione di immagini. Il discorso sulla dinamica e sull'ottica è appena iniziato e certamente Tulliach lo porterà sino alle sue estreme conseguenze. In ogni modo, già ora, esso si presenta interessante e soprattutto pittoricamente valido.

Come è valida, dal punto di vista squisitamente tecnico, tutta l'opera di Tulliach che, dotata di una coerenza rigorosa, di una assoluta sincerità, assume matericamente fremiti di autentica poesia.

Adele Menzio - 1977