La prima volta che ci siamo incontrati, Tullio Tulliach, prima di parlarmi della sua pittura (conoscevo già alcuni suoi quadri) mi ha parlato del mondo da cui era venuto, della nativa Pola, dell'Istria, di Trieste. Ho conosciuto altri istriani, di Zara, di Fiume, e in tutti ho trovato questa nostalgia struggente per le città abbandonate, per le loro tradizioni, per un mondo culturale un po' mitico di cui Trieste era non solo il centro (e tutti sappiamo quanto importante, da Svevo a Saba, da Slataper a Stuparich) ma il simbolo. In minore quello che Vienna fu per scrittori come Musil e Roth.

Questa situazione umana è forse la chiave per capire la pittura di Tulliach. In una breve nota che mi ha lasciato descrive molto bene il momento poetico dei suoi quadri: «Io cerco di fermare sulla tela quel breve momento del giorno che inizia subito dopo il tramonto del sole per esaurirsi nel buio della notte. È un momento nel quale i colori, senza più contrasti di luci e di ombre, hanno un ultimo splendore di luce riflessa».

Bisogna aggiungere che in tutti i suoi paesaggi appaiono delle luci accese, teorie di lampioni stradali la cui luce è appena un poco più forte di quella che ancora illumina le colline e le strade. È un momento magico che dura pochi minuti. Tulliach dipinge tutti i suoi paesaggi nello studio sulla base di rapidi appunti presi dal vero, ma soprattutto affidandosi alla memoria. L'artista da qualche tempo sta tentando nuovi esperimenti, tesi a rompere la staticità del panorama ed a rendere quella sensazione di visione in movimento che è caratteristica del nostro tempo.

Anche se non ce ne rendiamo conto, non siamo più dei contemplativi: il cinematografo, la televisione, l'automobile hanno modificato profondamente il nostro modo di vedere. Il problema che Tulliach si pone non è più quello del dinamismo futurista, che mirava a rappresentare delle forme in movimento. Egli vuole invece dare la sensazione dello spostarsi del punto di vista lungo un paesaggio immobile, il che significa introdurre nella rappresentazione anche il fattore «tempo».

Si noti come in questi quadri il disco giallo dei lampioni è sempre deformato, come lo sarebbe la fiamma di una candela piegata dal vento. È un espediente formale, e non è il solo, con il quale il pittore vuole suggerire l'impressione del movimento. Non sono paesaggi contemplati, giorno dopo giorno, dalla soglia di casa, ma veduti passando, dall'automobile o dal treno, e di cui non rimane che un ricordo struggente, quella insostenibile dolcezza che sfiora l'angoscia nell'avvertire che si sta vivendo un momento irripetibile.

Cito ancora dallo scritto del pittore: «I problemi che cerco costantemente di risolvere sono: la spiritualità nel paesaggio espressa con una tecnica pittorica fatta di toni staccati e contrastanti, ma senza chiari e scuri. Prediligo le colline silenti delle Langhe e del Monferrato con la geometria dei campi verdeggianti o arati di fresco e le macchie dei pioppeti, dei salici, dei rovi che cingono i poderi».

Tulliach mi dice di avere amato soprattutto gli Espressionisti tedeschi, ma che considera suo vero maestro Francesco Menzio, di cui frequentò lo studio. Da tutti questi maestri imparò a servirsi liberamente del colore per i suoi valori simbolici, cioè per esprimere degli stati d'animo. I colori di Tulliach sono mentali, lirici, non naturalistici. Predilige gli azzurri, i viola, colori limpidi e freddi, le stesure piatte, con effetti di «ritagliato». Quello che per lui conta è l'intonazione generale del quadro - quasi sempre «elegiaca» - alla quale tutti i colori locali sono subordinati.

Renzo Guasco - 1977